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Maruska Albertazzi è nata a Bologna nel 1976. Diplomata in Florida, laureata in Comunicazione di Massa a Bologna, giornalista professionista, ha lavorato prima come attrice e aiuto regista in teatro e, in seguito, come giornalista televisiva, sceneggiatrice, autrice e infine regista.

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Qualunque persona che sia riuscita a guarire da una condizione psichiatrica riferisce come la guarigione non abbia rappresentato un miglioramento delle proprie condizioni di salute ma un cambio di prospettiva radicale rispetto alla malattia.

Quando cerco di descrivere il recovery dalla depressione o dall’anoressia uso spesso la metafora cinematografica: cambi ottica, certo, metti a fuoco, ma cambi anche e soprattutto inquadratura. Questo significa che non torni come prima, non sei quella che eri senza depressione o disturbo alimentare. Non sei semplicemente “senza malattia” ma sei qualcosa di più, qualcosa d’altro. Altrettanto, mi è capitato di essere testimone, in questi anni di attivismo, di guarigioni che i medici hanno definito “miracolose” ma che, a mio avviso, così miracolose non erano. Donne adulte, malate da anni ed anni che, ad un certo punto, hanno cominciato a stare meglio fino a guarire. Per la mentalità del clinico, che per ogni malattia individua una serie di parametri da cui dedurre statisticamente la probabilità di guarigione, casi quasi inspiegabili. Per la mia mentalità, più filosofica e olistica, casi possibili quando la giusta cura incontra il giusto tempo e il giusto spazio.

Ecco perché reagisco con forza alla notizia che negli USA la MAID (Medical Assistance In Dying, ovvero l’eutanasia) venga offerta a chi viene definita malata di “anoressia terminale”.

Un articolo di Gaudiani et al. pubblicato recentemente sul Journal of Eating Disorders propone l’eutanasia come una “possibilità” da offrire a chi soffre di anoressia terminale, un termine evidentemente coniato per l’occasione, visto che non si tratta di una condizione riconosciuta dalla comunità scientifica.

Nell’articolo, questa condizione si identifica nelle persone sopra i 30 anni di età con diagnosi di anoressia nervosa e accesso precedente a cure “di alta qualità”, determinate a mettere fine alla propria vita perché convinte che qualunque cura della loro malattia sarà comunque inutile e avrà come conseguenza la morte.

Si fanno poi alcuni esempi di pazienti con queste caratteristiche che sono state accompagnate alla morte.

Mentre leggevo l’articolo, seguivo con apprensione le vicende di una ragazza appena maggiorenne malata di anoressia nervosa che sta rifiutando le cure che le vengono proposte. Niente di strano, tutte noi che siamo state malate sappiamo che c’è un momento in cui la mente si scolla dalla realtà, dal corpo fisico, dalle cose. Sappiamo che c’è un momento in cui la possibilità di guarire non è contemplata e si fa strada sempre di più la possibilità della morte. L’anoressia nervosa e la morte vanno a braccetto. Non come effettivo desiderio di morire ma come possibilità astratta che non fa paura in quanto astratta. Una ragazza malata di anoressia che non teme la morte, non la teme perché non ne ha una percezione “fisica”, reale. La morte è un’idea, come lo sono la vita, l’amore, il grasso, il magro, il corpo. Chi soffre di anoressia nervosa si preoccupa del corpo ma è tutta nella mente, il corpo in realtà non esiste, è un disegno a matita, un algoritmo, una parola vuota.

Intanto, negli USA, un gruppo di medici mette nero su bianco dei parametri.

Avere più di 30 anni. A 30 anni molte ragazze sono nel pieno della malattia, alcune l’hanno scoperta da relativamente poco, altre da poco hanno ricevuto cure adeguate. L’età media in cui si fa un figlio oggi è ben sopra ai 30 anni, la vita media super gli 80. A 30 anni, per loro, se sei malata, sei “cronica”.

Aver avuto accesso a cure di qualità. Di qualità come? Per quanto tempo? In ricovero o in ambulatorio? Quanti psichiatri o psicoterapeuti sono stati cambiati? Quante terapie sono state provate? Immaginate per un istante la stessa situazione riprodotta in Italia: cosa considerereste voi “cure di qualità”? In quale comunità o ospedale o ambulatorio? E per quanto tempo?

Avere la convinzione che nessuna cura potrà servire e di essere una malata terminale. Già. La convinzione tipica di chi è malata di anoressia da anni e ha bisogno di sapere che per quanto lei possa pensarla così, non è la vera lei che lo pensa ma quel pensiero è il risultato di un progressivo distacco dal corpo fisico, dalla vita, dalla carne.

Mi capita spesso di scrivere che la guarigione è un atto di fede e spesso la fede non è quella delle persone malate ma quella di chi sta accanto e tira “di qua”. L’ostinazione, la convinzione, la speranza almeno all’inizio non sono quasi mai di chi sta male, non con l’anoressia nervosa.

Sono di chi sta intorno, di chi sta accanto.

Ogni volta che comunichiamo “mollare non è un’opzione”, noi tiriamo quella persona un millimetro in più verso la vita. Io lo faccio ogni giorno. Tiro persone verso la vita. Uso la mia storia, la mia energia, per far vedere cosa c’è “dopo”, che anche se non lo vedi c’è, che se anche ora non hai la forza te ne do un po’ io.

Ecco perché mi lascia così amareggiata che si possa parlare di “anoressia terminale” e che si possa includere l’eutanasia tra le “proposte terapeutiche”, usando parafrasi per non dire quello che è: offrire la morte.  E se offrire la morte a chi soffre di una malattia davvero terminale come un cancro o una SLA può essere un gesto di compassione, offrirla a chi soffre di anoressia nervosa è criminale. Ci sarà chi argomenterà che vige su tutto i principio di autodeterminazione, che se una persona ha deciso di morire lo farà comunque in modo violento ma quale autodeterminazione può esistere in un cervello gravemente malnutrito e ammalato di depressione?

E’ dimostrato che l’ideazione suicidaria è molto frequente nelle persone malate di anoressia nervosa ma la percentuale di chi decide poi di mettere in pratica l’atto è sotto è dello 0,26%.

Cosa accadrebbe se l’eutanasia venisse offerta come possibilità? Cosa sta accadendo anche ora che alcune persone sanno che questa possibilità da qualche parte, nel mondo, viene offerta?

Quanto può trascinare giù una cosa simile? Quanto può fare la differenza per resistere o mollare?

La guarigione da un disturbo alimentare non è sempre un processo organico e lineare, anzi, non lo è quasi mai. La guarigione può arrivare molto presto o molto tardi, può arrivare inaspettata o come si prevedeva arrivasse. Può arrivare a 25 anni o a 30 o a 40 o a 50. Può arrivare dopo anni di terapie che non hanno funzionato semplicemente perché fino a quel momento non si era davvero pronte per guarire o perché quelle terapie considerate “high quality” non lo erano affatto. Ma la possibilità di guarire deve essere sempre lì, deve essere un mantra, deve essere un monolite insindacabile e intoccabile. La possibilità di guarire, non quella di morire.

Bibliografia

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