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Maruska Albertazzi è nata a Bologna nel 1976. Diplomata in Florida, laureata in Comunicazione di Massa a Bologna, giornalista professionista, ha lavorato prima come attrice e aiuto regista in teatro e, in seguito, come giornalista televisiva, sceneggiatrice, autrice e infine regista.

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La crepa nella bolla di vetro dell’anoressia

La crepa nella bolla di vetro dell’anoressia

La mia epifania accadde un giorno d’estate. L’estate dei miei 13 anni. Ero malata da quasi un anno, un anno in cui il mio peso era sceso lentamente, con costanza, senza dare troppo nell’occhio. Fino a quell’agosto che seguiva un luglio in cui avevo praticamente smesso di ingerire cibo. Un luglio esaltante, in cui la fame che mi aveva accompagnata per mesi era praticamente scomparsa, in cui mi sentivo onnipotente, superiore, lontana anni luce dal pianeta terra. Un’aliena sulla via dell’eternità. Quell’agosto a Positano era fatto di chilometri a piedi, in salita. Dalla spiaggia a casa erano 237 scalini in salita. Li contavo uno ad uno, due volte al giorno, in mezzo il mio unico pasto a base di ricotta. Non so perché la ricotta, forse perché era bianca, forse perché mi ricordava il latte di quando ero piccola, forse perché mi rassicurava e basta. Non c’era una logica ma nell’anoressia non c’è mai una logica comprensibile all’esterno. Ne esiste una interna però, perfetta, calcolata al millesimo. Una logica rassicurante fatta di numeri e gare con te stessa. Gare in cui sei sempre tu contro te, dove ogni vittoria contro i tuoi istinti e la tua umanità ti allontana sempre di più dal mondo dei vivi. Il mondo scorre davanti ai tuoi occhi ma tu non lo vedi, tu hai il tuo mantra che ti culla, sei persa nella tua meditazione ascetica, voli alto, sempre più leggera.

L’anoressia è una forma di psicosi, dove la realtà non è più quella reale ma solo quella dentro la tua testa. E lì dentro non funzionano gli ammonimenti, non funzionano gli spauracchi dell’invalidità e della morte, non funziona il richiamo degli affetti, non funziona niente. Cammini a un metro da terra, dentro a una bolla di vetro infrangibile e mentre gli altri ti vedono deperire fino a morire, tu sei convinta di essere diventata immortale. Posso immaginare che di anoressia si muoia così, come drogata di morfina, senza sentire più alcun dolore perché il corpo ormai non c’è più, è staccato dalla mente, sono due entità distinte, non si parlano nemmeno più.

Il giorno della mia epifania, dicevo, indossavo una gonna a balze verde smeraldo e una maglietta bianca. Amavo quella gonna, perché nelle sue balze le mie gambe erano quasi scomparse. Non riuscivo a vedermi magra in assoluto ma solo in relazione a qualcosa. Quella gonna ormai troppo larga e abbondante, di un colore improbabile che non mi donava affatto, era la mia perfetta unità di misura. Gli abiti non erano più abiti, non mi interessava essere carina o vestita bene, mi interessava solo il calcolo matematico delle proporzioni: quanta percentuale di gonna e quanta di gambe.

Quel giorno, insomma, passeggiavo con la mia gonna a balze, da casa al paese dove mia madre mi aspettava per una cena in cui avrei ordinato gli spaghetti con le vongole e avrei mangiato solo le vongole. Passai per la piazza dove un gruppo di ragazzi sui vent’anni sorseggiava l’aperitivo. Sentii i loro occhi su di me, accelerai il passo ma sentii comunque le loro parole: “che carina quella ragazza, peccato sia così malata, chissà che cos’ha”.

Girai l’angolo, buttai l’occhio alla mia sinistra e mi fermai. C’era la vetrina di un negozio che rifletteva la gonna verde con le balze e la ragazza dentro a quella gonna. Mi girava la testa. Mi facevano male i muscoli. La ragazza riflessa in quella vetrina non ero io. Aveva occhiaie profonde e la testa troppo grande rispetto al corpo. E le gambe poi, quegli stuzzicadenti con le ginocchia enormi, non erano le mie gambe. Le mie gambe erano molto più grosse. Non ho idea di cosa sia accaduto nella mia testa in quel momento ma so per certo che ha segnato la fine della mia luna di miele con la malattia.

La testa mi girava ancora più forte, avevo la nausea, la vista annebbiata, non sapevo nemmeno più se quell’immagine era reale o un’allucinazione, non sapevo più chi ero io, com’ero, in che direzione sarei dovuta andare, non sapevo più nulla.

Quella sera, a cena, mangiai due forchettate di spaghetti. Passai la notte a rigirarmi nel letto per i sensi di colpa, il giorno dopo non toccai cibo ma la bolla di vetro si era incrinata e un frammento di realtà si era infiltrato nella crepa.

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