Neurodivergente
Qualche giorno fa sui miei social ho raccontato del pranzo con un’amica e della mia difficoltà ad uscire dagli schemi. Per molte persone è difficile capire cosa intendo, perché guardano alla cosa da una prospettiva neurotipica. In pratica, ho raccontato che il cambio improvviso di programma – invece di un pranzo a due era diventato a quattro, con altre due persone che non conoscevo bene o non conoscevo affatto – che coincideva con la necessità di cambiare lo schema di abbigliamento che avevo progettato per quell’uscita.
Visto che lo schema del pranzo era inevitabilmente cambiato, avevo tre possibilità: o cercare di adattare il mio abbigliamento all’occasione per sentirmi più in tono e sicura, oppure restare vestita com’ero e andare così. La terza opzione era quella di rinunciare all’uscita.
Per una persona neurotipica, la scelta più ovvia è quella di cambiare abbigliamento oppure, in alcuni casi di persone molto sicure di sé o anticonformiste, di andare così come si è.
Difficilmente si decide di restare a casa, a meno che non si viva il cambio di piani come un affronto personale. In ogni caso, la discriminante è data dalla maggiore o minore propensione a conformarsi ad una situazione e dalla minore o maggiore confidenza con l’amica.
Per una persona neurodivergente, però, le cose si complicano e si spostano su un altro asse. Il mio problema non era essere abbastanza sicura di me da andare al pranzo vestita così com’ero ma riuscire a gestire una situazione che imponeva un cambio di schema a cui ne sarebbe dovuto seguire un altro. Cerco di spiegarmi meglio: nella mia testa, lo schema “pranzo con amica” prevedeva una serie di variabili che, programmando l’evento, avevo elaborato e fissato. Tutto era perfettamente incastrato in una specie di cubo di Rubik mentale in cui tutti gli elementi scattavano nel post giusto al momento giusto, regalandomi un grande senso di calma e serenità. Il cambio di programma è paragonabile a un bambino dispettoso che prende il cubo e comincia a rigirarselo tra le mani, mischiando tutti i colori e generando una grande confusione, un forte senso di smarrimento, la necessità di riconsiderare tutti gli elementi e di nuovo mettere in fila le variabili (e i quadratini colorati). A quel punto, il cubo non è più nemmeno un cubo ma una miriade di quadratini colorati che si espandono e si mischiano nella mia testa. Per un persona neurodivergente, tutti quei quadratini sparsi sono fonte di un’angoscia incontenibile. Ora, forse troverete stupido che tutto questo si traduca nell’angoscia per il cambio d’abito ma il cambio d’abito è qualcosa di terribilmente difficile perché comporta un’altra serie di micro decisioni da prendere in un tempo limitato: i pochi minuti che mi separano dall’uscire di casa. Pochi, troppo pochi. L’istinto è quello di restare a casa. Non per un problema di insicurezza – io non sono una persona insicura – ma per un problema di quadratini e variabili da considerare in un tempo limitato che mi mandano fuori di testa. La mia decisione finale, quella di uscire vestita com’ero, è frutto di un grande sforzo di limitazione del danno: se avessi dovuto cambiare due schemi invece di uno, non sarei più uscita di casa. Così ho scelto di dichiarare la mia difficoltà a cambiarmi all’amica che per me è una sorella e affrontare solo il cambio di schema numero uno, accettando il disagio che non cambiarmi d’abito avrebbe potuto generare. Per limitare i danni, ho utilizzato due strumenti: la verbalizzazione del mio stato d’animo e la tecnica del “worst possible scenario”. Qual era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere? Che le amiche della mia amica mi avrebbero considerata fuori luogo. Qual era la probabilità che questo accadesse? Media, conoscendo l’ambiente dal quale provenivano. Quanto questo avrebbe impattato sul rapporto tra me e la mia amica? Per nulla. Quanto questo avrebbe condizionato il mio umore i giorni successivi? Trascurabile.
Se al contrario avessi deciso di cambiarmi, sarei probabilmente rimasta bloccata davanti all’armadio per un tempo superiore a quello del pranzo e avrei dovuto disdire.
Per la maggior parte delle persone, io sono un’anticonformista. Non so, forse è anche vero ma di certo non è per quello che molto spesso giro in tuta anche quando l’occasione richiederebbe un altro abbigliamento. E non è per quello che sono andata al pranzo con i leggings tagliati. Non è nemmeno perché sono una persona sicura di sé. E’ perché sono neurodivergente e la mia testa segmenta la realtà in un altro modo, un modo difficile da spiegare quanto da capire. Non è meglio o peggio, è diverso. Il problema è che la maggior parte delle persone non capisce questa mia visone differente e mi appiccica etichette non mie.