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Maruska Albertazzi è nata a Bologna nel 1976. Diplomata in Florida, laureata in Comunicazione di Massa a Bologna, giornalista professionista, ha lavorato prima come attrice e aiuto regista in teatro e, in seguito, come giornalista televisiva, sceneggiatrice, autrice e infine regista.

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Ho il cervello difettoso ma ci faccio meraviglie
Ho il cervello difettoso

Ho il cervello difettoso

Ci sono persone che legano i loro ricordi a dei luoghi significativi, altre a oggetti, altre ancora a persone. Avevo un’amica, anni fa, che scandiva le fasi della sua vita a partire dai fidanzati: “ti ricordi il mio periodo punk quando stavo con Giulio? E quanto ero hippie quando stavo con Lorenzo? E la mia fase bon ton con Riccardo?” e via così, in un succedersi di nomi a cui agganciava ritratti di se stessa.

Io la mia vita la segmento a partire dalle diagnosi: l’infanzia con l’ansia e la malinconia, la pubertà e l’anoressia, l’adolescenza e il disturbo post traumatico da stress, la prima giovinezza e gli episodi ipomaniacali, la seconda giovinezza e la depressione, la prima età adulta con l’ansia generalizzata, la prima depressione post partum e poi la seconda. In mezzo ci sono stati momenti di disturbo ossessivo-compulsivo e una spruzzata di neurodiversità a condire il tutto.

Quasi tutte diagnosi tardive lei mie, arrivata con la terapia affrontata “da grande”. Perché fino a poco tempo fa – e in molti casi ancora adesso – la malattia mentale era riconosciuta solo se così evidente da rendere una persona incapace di compiere le più basilari azioni quotidiane, di avere relazioni, di stare nel mondo. E visto che io questa capacità l’avevo, riuscivo a studiare, ad avere un fidanzato, a laurearmi, a trovare lavoro, non ero malata. Certo, per farlo ogni tanto ricorrevo a un aiutino. Non sono mai stata dipendente dalle sostanze – la mia ipocondria non me lo ha permesso – ma avevo la mia cassetta degli attrezzi: i digiuni e le restrizioni per togliere peso all’angoscia, la pillola di efedrina per tirarmi su e restare magra, le sigarette per rilassarmi e calmare l’eccessiva eccitazione, le situazioni pericolose per esorcizzare la morte, l’occasionale pasticca di ecstasy per scollegarmi dal mondo.

Sono arrivata così, salda su gambe che sembravano di granito e invece erano un accrocco di legnetti incollati male, alla mia prima gravidanza. E’ stato in quel momento e solo in quello, in cui non potevo più usare nulla, in cui venivano meno tutte le mie stampelle, che sono stata costretta a riaprire ogni cassetto e rimetterlo in ordine.

Così visualizzavo la mia vita: una stanza polverosa piena zeppa di vecchie cassettiere alte cinque o sei metri, con i cassetti così pieni e disordinati da non poterli chiudere bene, cassettiere storte e mangiate dai tarli, che si reggevano per miracolo.

Avevo il terrore di mettere in ordine quei cassetti. Immaginavo che ci sarebbero voluti anni, decenni, anche solo per aprirli.

Non avevo torto. Mi sdraiai rassegnata sul lettino dell’analista e inizia a snocciolare la mia storia per sommi capi, nella speranza che il dottore mi facesse un po’ di sconto sui dettagli: le molestie le devo elencare tutte o solo quelle principali? I dettagli della violenza le servono o possiamo soprassedere? Ci concentriamo su mia madre o su mio padre?

Ma il dottore era un monolite e aveva l’aria di chi non si sarebbe fatto corrompere. Iniziammo dall’inizio e andammo avanti per quasi tre anni senza che nulla si muovesse. L’analisi mi faceva prendere consapevolezza ma non mi spostava di un millimetro. Il disagio era sempre lì, solo più raccontato di prima. Insomma, i cassetti li avevo aperti, un po’ avevo rovistato ma anziché riordinare, buttare e ripulire, avevo solo sparso tutti i vestiti per la stanza.

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